Si, grazie Michele* per questo tuo intervento, sempre puntuale, e per la bella sollecitazione che mi poni.

Cercherò di dirne qualcosa, seppure in termini ristretti e certamente non adatti alla complessità della materia in esame. Dunque, in relazione alla questione che ponevi, e rispetto dunque allo sfondo funzionalista jacksoniano in rapporto con l’antilocalizzazionismo freudiano, già fortemente posto in essere in Afasie, potrei dire che, certamente, Freud muove i suoi passi di scienziato in un contesto specifico.

Freud, potremmo dire, non fa le sue scoperte “nel vuoto”. Egli utilizza certi frangenti teorici peculiari per produrre, per così dire, quei “salti” epistemologici in grado di coerentizzare e generare quell’impalcatura generale (come anticipato da Francesco) all’interno della quale poter disporre diversamente certi dati, nel tentativo di dare alla neurologia dell’epoca (e poi alla psicologia) una base più larga, ma al tempo stesso più coerente e solida. E dunque in Afasie, lo ricordiamo, proprio ricorrendo all’impostazione del padre della neurologia inglese, Freud tenta un per così dire un “attacco” frontale all’impalcatura meynertiana, direi in almeno qualche punto essenziale.


Ricordo che l’idea di fondo, per quanto riguarda la concezione dell’apparato di linguaggio, era all’epoca quella che riteneva fosse esso fondato da due estremità-centri anatomici ben specifici: uno motorio-fonatorio (che includeva al suo interno le immagini motorie, l’area di Broca appunto) e uno sensoriale-percettivo (che includeva al suo interno le immagini sonore del linguaggio appunto, l’area di Wernicke); le due estremità erano tenute insieme, per cosi dire, da una massa di sostanza grigia che Wernicke identificava con la corteccia dell’insula (oggi ci si riferisce invece al “fascicolo arcuato”). Freud muove una serie di critiche a questa impostazione rilevando come ad esempio essa non spiegasse come avveniva l’apprendimento di nuove parole e lingue durante tutta la vita, restando nell’ambito di un meccanismo sostanzialmente riflesso: l’area delle immagini sonore, attigua a quella uditiva, tratteneva la rappresentazione sonora e la immetteva, lungo l’insula, sulla via della produzione motoria. Tutto molto chiaro. Ma in che modo, però, tutta una serie di altre attività corticali complesse erano in rapporto con tali centri del linguaggio? E che dire del linguaggio spontaneo? Dunque: al di là della validità del modello al livello del funzionamento riflesso, lo ribadiamo, restavano in ombra tutta una serie di questioni neuropsicologiche sulle quali, però, sarebbe qui impossibile soffermarsi. Ci basti forse solo dire che, per sopperire a tali incongruenze, proprio Lichteim propose un ampliamento solo “diagrammatico” (dunque non inscritto nell’anatomia cerebrale) del funzionamento dell’apparato di linguaggio, complessificando l’arco riflesso con l’aggiunta di “punti corticali” diversificati che potevano avere un ruolo centrale nella “messa in moto” dell’apparato stesso.


Da questo punto di vista è proprio l’idea di “centro”, e nella fattispecie di “centro linguistico”, cosi rigidamente concepita che Freud critica proponendo una sorta di “localizzazionismo debole”, come l’ho definito anche nel nostro testo (“localizzazione dinamica”, dunque, non rapporto 1:1). Proprio qui, entra in gioco Jackson. Per il padre della moderna neurologia inglese in effetti i “centri” non erano da concepirsi come contenitori statici di rappresentazioni ma piuttosto come “crocevia-nodi” dalla consistenza funzionale altamente selezionata e diversificata. L’elemento di base per l’architettura nervosa jacksoniana è la configurazione senso-motoria: tale configurazione di elementi sensorimotori avrà natura più semplice e più specializzata nei livelli più bassi del sistema nervoso, laddove già a livello diencefalico-limbico la configurazione ri-rappresentava la sollecitazione originaria e al livello più alto, neocorticale, ri-ri-rappresentava lo stimolo. Tale proposta, a detta di Freud, scardinava alla base la teoria cortico-centrica meynertiana per la quale vi era una “proiezione” esatta, punto per punto, della periferia del corpo sulla corteccia. Per Jackson – e per Freud – tale proiezione valeva solo per i livelli spinali, laddove per quelli più propriamente corticali doveva essere introdotto il termine “rappresentazione” o, meglio, “rappresentanza”. Oggi sappiamo dell’esistenza di circuiti a conduzione parallela (canale-dipendenti) e circuiti a conduzione divergente. Ma non approfondisco qui tale tematica.
Il mondo e gli oggetti, da tal punto di vista, non sono semplicisticamente “impressi” nel corpo, ma il sistema nervoso stesso è attivamente coinvolto in una opera di decostruzione e risistemazione delle tracce sensorio-percettive, dove non è dato conoscere affatto, con precisione, le peculiarità di un siffatto, complesso sequenziamento. Natura “processuale”, “dinamica” del sequenziamento dunque, dove è possibile localizzare in corteccia solo le tracce relativamente permanenti del passaggio dell’eccitamento, tracce-percorsi sì “rappresentativi di qualcosa”, ma non isomorfici. Quali conseguenze ha, dunque, tale impostazione funzionalista e dinamica per la ridefinizione del problema della localizzazione e, direi, per la ridefinizione del rapporto “struttura-funzione”, così caro a Freud?


Se le configurazioni senso-motorie di base sono distribuite per livelli di complessità ricorsiva crescente (ed eventualmente decrescente) che certamente convergono fino alla costituzione di centri, che esprimono qualità funzionali stabili, più importante diverrà lo studio del percorso conduttivo e la determinazione degli elementi senso-motori coinvolti nel processo, e che convergono in specifiche aree. Tali aree non sono compartimenti anatomici statici e già predeterminati di rappresentazione (non esiste per Freud una funzione propriamente linguistica da questo punto di vista, ma “percorsi” che implicano campi di estensione più indeterminata ma via via più specializzati – che si lateralizzano a sinistra, certo – ma sempre, percorsi, di ordine senso-motorio. Tali configurazioni convergono dunque fino alla generazione di una emergenza mentale specifica, di una funzione specifica, ma multideterminata e sovraordinata.


Queste considerazioni, lo si può già comprendere, esprimono la salienza di percorsi predeterminati solo in piccolissima misura a livello genetico: essi sono piuttosto evocati da vicissitudini evolutive, storicamente e singolarmente prodotte. Jackson non si occuperà mai degli “affetti”, come fenomeno psicobiologico/relazionale fondante la possibilità stessa di costituzione di funzioni mentali…Freud come sappiamo ha inventato la psicoanalisi!

Dott. Luigi Merico

*Michele Lualdi è psicologo, psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico, esperto in Neuropsicologia e psicologia sperimentale. Dopo numerose esperienze lavorative e formative nell’ambito della neuropsicologia clinica, ad esempio presso l’U.O. di neurologia dell’ASL di Busto Arsizio, oppure ancora la collaborazione con il prof. Bisiach presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli studi di Torino, dobbiamo certamente ricordare l’enorme lavoro di ricerca storica, epistemologica e linguistica da egli svolto: Lualdi, oltre ad aver pubblicato numerosi saggi nell’ambito della neuropsicologia e della psicoanalisi clinica, si è dedicato infatti alla traduzione sistematica di alcune opere fondamentali del Freud preanalitico. Ricordiamo ad esempio la raccolta di Scritti del 1887, oppure ancora l’Introduzione critica alla neuropatologia sempre del 1887 e l’opera eccezionalmente impegnativa di traduzione dell’intera trilogia freudiana sulle paralisi cerebrali infantili, opera che, ricordiamo, valse a Freud la fama di autentica autorità scientifica nel campo delle paralisi cerebrali.

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